Dal prossimo 20 agosto e fino al 10 settembre 2022, la Galleria Ponzetta di Pietrasanta, in provincia di Lucca, ospita la nuova personale “Memento Vivere” della scultrice toscana Valentina Lucarini Orejon.
L’artista, nella sua continua ricerca artistica sulla reliquia e sugli ex voto, presenta una nuova serie di opere: quattro sculture in bronzo patinate, due teschi e due femori, con delle sovrapposizioni ed interventi in ulteriori metalli, dall’ottone al bronzo bianco nonché delle installazioni con dei teschi in gesso bianco patinato, decorati con scorie e “bave” di bronzo e di ottone, così da voler ricreare una vera e propria Wunderkammer (“Stanza delle meraviglie”), un richiamo all’estetica molto in voga nel ‘700 e ‘800.
All’esposizione, in sede di vernissage il 20 agosto, sarà abbinata una performance site-specific dell’artista Valentina Lucarini Orejon, la quale seduta ad un tavolo antico, andrà ad intervenire con della grafite e del carboncino su una serie di teschi in gesso bianco, posizionati di fronte a lei; lo spettatore sarà chiamato a diventare parte integrante dell’azione sinergica di arte collettiva, operando nella stessa maniera, sedendosi di fronte all’artista.
I teschi decorati durante la performance rimarranno esposti all’interno della Galleria Ponzetta, come parte integrante del percorso espositivo.
Come la stessa artista dichiara nel testo abbinato all’esposizione: “Per lungo tempo l’uomo ha vissuto a stretto contatto con la morte. A partire dall’antichità, si pensava che il ritorno alla terra, dopo la vita, fosse un momento catartico, da accompagnarsi con dei rituali di sacrificio (dal latino sacrificium: rendere sacro), così da scongiurare il manto di oscurità e oblio che caratterizzano questo nostro comune destino.
Alcuni esempi ne sono le culture mesoamericane dei Maya e degli Aztechi, assimilate poi all’odierna cultura Messicana, oppure la cultura funeraria egizia o ancora quella a noi più vicina appartenente agli etruschi.
Nella società occidentale la morte appare come epurata, dissolta, occultata ma al tempo stesso mercificata a dovere sui social network, che mettono al primo posto parole e valori come progresso, efficienza e capitale, escludendo così i concetti di fragilità, debolezza e vecchiaia, poiché meno attraenti e funzionali. La morte diventa così un mero oggetto di consumo della nostra odierna collettività capitalizzata, ascrivibile alla cronaca nera, ai titoli ridondanti e alle guerre ideologiche.
Da questo occultamento della morte è probabile e possibile che a nascere, crescere e a stratificare sia una non vita; un non luogo sospeso, dove l’uomo non percepisce le pulsioni vitali e primarie e tende così a ripiegarsi su se stesso.
Il memento mori o vànitas, proviene dalla locuzione latina nata in seno alla civiltà dell’antica Roma, ed era atta a ricordare di tenere lo sguardo sul nostro presente, di godere della vita mettendo da parte la superbia, ed è proprio attraverso questo messaggio che l’uomo ritorna ad accorgersi della propria finitezza.
Per vivere pienamente, infatti, è necessario l’atto dell’accorgersi; questo termine rende infinitamente bene lo stupore e l’orrore tipici di un risveglio all’unisono di mente, cuore e anima, risveglio che ci rammenta che la condizione effimera dell’esistenza – apparentemente dovuta alla caducità della materia di cui siamo composti – non può niente contro la forza oscura e incorporea delle nostre anime.
Trasformare il memento mori in un atto di arte collettiva è l’intento di questa performance, atto che si compie attraverso la sinergia tra due individui la cui gestualità sincrona si risolve in una narrazione disegnata, fatta di segni che andranno a ricoprire un teschio umano, rappresentazione simbolica di una sorte comune.
Il disegno faccia a faccia, ripreso da un gioco che da piccola facevo con mia sorella, diventa il gesto rituale con cui riappropriarsi di una nuova narrazione della morte e di conseguenza della vita.”