Nel poema antidiluviano, Enkidu e Gilgameš si addentrano nel cuore della foresta dei cedri per dare la caccia a Humbaba, che è assieme guardiano del luogo ed incarnazione del bosco. Gilgameš è il re che vide ogni cosa al mondo, che apprese tutto e fu saggio; Enkidu un semidio che raccoglie in sé la triplice natura d’animale, di uomo e di divinità. E ciò nonostante, l’aver violato un luogo sacro precluso alla vista, l’aver abbattuto un frutto della terra e il suo pastore, si rivelano fatali. Enkidu si spegnerà anzitempo per espiare il peccato terribile e Gilgameš, ossessionato dalla ricerca della vita eterna, morirà di vecchiaia, nella gloria, ma anche nella sofferenza peggiore di tutte: quella di riconoscere la propria mortalità – che cala come un’ombra sulle fatiche e le imprese mirabolanti.
La foresta dei cedri è in questi versi un mondo di cui siamo un di troppo, un’aberrazione che, necessaria da un lato per riconoscerne l’immensità, dall’altro lo aggredisce con la sua propria esistenza violandone le leggi e le geometrie intoccabili. È un’epopea frammentaria sull’insensatezza di tutto, scritta con rabbia e ammirazione una silloge di preghiere e bestemmie, gridata contro le vastità vuote che ci contengono. Un monumento quasi, per noi che siamo guerrieri solo nella miseria.
(da Prologo dell’autore al libro)
Sull’autore:
Francesco Costa (Belluno, 1992) nato per morire, vive ciò nonostante a Venezia – dopo essere transitato per Gorizia, il Belgio e la Francia, dove ha partecipato al movimento libertario lionese e lavorato come ricercatore presso il poeta e sociologo anarchico Mimmo Pucciarelli. Laureato in Scienze Internazionali e Antropologia, si occupa di fotografia, pittura e parole. I suoi versi sono apparsi in riviste online («Poetry Factory», «Il Visionario», «L’Altrove») e stampate («210A»), i suoi lavori sono raccolti nel sito thisminimalshit.com e nel 2020 Ensemble ha pubblicato Cipango, il suo primo libro di poesie.