Ci eravamo ripromessi di tornare a sentirci dopo l’incontro del mese di ottobre 2021, per fornire utili segnalazioni sul tuo lavoro e descrivere ulteriori percorsi recenti. Sta proseguendo in questo periodo la promozione del volume intitolato Viaggio nell’entroterra [moviment-azioni pianistiche], che si presenta come un elegante compendio caratterizzato da ricche testimonianze di azioni performative e sonore, per le quali hai coniato la dicitura “pianoforti eterocliti”. Vorrei ce ne parlassi.
Le pagine di Viaggio nell’entroterra [moviment-azioni pianistiche] descrivono ampiamente il mio desiderio di lavorare -con permeabilità- all’interno di territori artistici e musicali espandibili, in grado di privilegiare la sottigliezza della dimensione temporale e il concetto di dirompenza viva del sogno. Il tutto conduce verso una sottolineatura della trasversalità dell’azione, dal punto di vista artistico e performativo. La permeabilità a cui mi riferisco interessa dapprima il rapporto con lo strumento e, conseguentemente, quello con i possibili ascoltatori e fruitori.
In senso letterale si dicono eterocliti quei nomi, verbi o aggettivi che si flettono con più temi o radici. Nel mio caso voleva esser presente dunque una chiara allusione a strumenti musicali agiti o da agire nel segno della versatilità e della variabilità, in una prospettiva complessa di mutazione. Un pianoforte è anzitutto un luogo di forze sommerse (magneticamente raccolte o ambiguamente disperse). L’attingibilità di tali forze e risorse si ritrova ad essere in stretta connessione con la nostra capacità di sguardo. Dal mio punto di vista ho voluto pertanto posare sullo strumento uno sguardo animato da una certa “spaziosità”, per rendere possibili diversi spunti generativi, affinché potesse dischiudersi una certa dose di intraprendenza poetica.
Oltre a ciò è presente, sul piano ideativo e operativo, un particolare approfondimento del principio di commutazione. In elettrotecnica la commutazione è un’inversione dei collegamenti di un circuito con le sorgenti di tensione oppure un passaggio da una disposizione di circuiti a un’altra. Ebbene questi spunti di tipo commutativo hanno interessato propriamente i miei processi mentali ed elaborativi, conducendo di fatto a risultati teorici, tecnici e performativi alquanto inusitati. Sono cinque, nella fattispecie, le elaborazioni da me offerte, che compongono i relativi capitoli su cui ciascun lettore o lettrice potrà gradatamente soffermarsi.
E così abbiamo ricerche su pianoforti abissali ed esperienze su pianoforti piantagioni. Lavori che definisco Scritture trasformiste accanto a studi su pianoforti volumetrici-sculturali e, infine, esplorazioni su pianoforti coltellati. Tutti questi approcci vanno a comporre un amalgama estetico multisfaccettato, frutto di una coordinazione funzionale tra idee, gesti e risultanze sonore vere e proprie. Da un punto di vista fattivo da tali ricerche sono scaturite musiche striate, vicine al fascino del catrame o di contro animate da una particolare dose di raccoglimento, con intensificazioni e riscoperte del vuoto (di stampo meditativo-silente). Del resto per me suonare e attivarsi musicalmente vuol dire, pur sempre, soggiornare piacevolmente “a ridosso” della tipicità di un ambiente- strumento, con l’idea di forgiare volta per volta un episodio inedito.
Il tutto porta a immergersi in un’avventura di sistole ed extra-sistole del cuore ma anche della mente, nel tentativo di liberare una qualche forma di significatività e vicendevolezza. Proprio in questi giorni mi è capitato di ritrovarmi a leggere un vecchio numero della rivista svizzera Dissonance, in cui Antonin Servière, sassofonista e compositore, torna più volte a soffermarsi sul termine plenitude. Ecco, questa pienezza è una meta perseguibile. Una pienezza che vada, per l’appunto, verso una sincera permeabilità, per utili compenetrazioni con il pubblico.
Partiamo anzitutto dai pianoforti abissali a cui ha dedicato uno dei capitoli. Descrivicene le peculiarità.
Propongo anzitutto un’interessante citazione di Anton Webern, il quale scrive: “Appunto questo: imparare a vedere abissi là dove sono luoghi comuni. E questo sarebbe il riscatto: l’impegno spirituale”. Nei pianoforti abissali il mio intento è stato proprio quello di procedere abbracciando una forma reale di inabissamento. Il riferimento non è soltanto di tipo pragmatico-musicale ma è legato al piano simbolico dell’esistenza. Nelle pagine del libro vibrano quindi molteplici riferimenti a ideali processi introspettivi: il pianoforte, in tal senso, è stato da me trasformato in un vero e proprio mezzo utile a depositare significazioni – e condensazioni di pensieri- legate a questo tema.
Un pianoforte dunque investito di procedimenti commutativi, come già accennavo. La creazione di cellule abitative interne al pianoforte mi ha consentito inoltre di mettere in moto un chiaro riferimento al tema della progettazione architettonica, avendo in mente diversi spunti appartenenti all’epoca moderna e contemporanea. Attraverso lo smontaggio parziale e il rimontaggio di alcune parti strutturali ho costruito infatti delle micro-unità abitative – quasi abitacoli –all’interno dello strumento e forgiato suoni agendo in tale contesto, per poi mettere in risalto anche i paesaggi visivi scaturiti dalla nuova conformazione data allo strumento, restituiti in forma installativa e- nelle pagine del libro- attraverso documentazioni fotografiche. Ma non è tutto.
Ci tengo a ricordare anche che, in questo volume, galleggiano continuamente delle vere e proprie costruzioni metaforiche, che agiscono sul piano simbolico. Da questo punto di vista ho avuto accanto ai miei tragitti le ipotesi e le parole intense di Ernst Cassirer, racchiuse nel saggio Linguaggio e mito, dove si mostra quanto sia stretto l’intreccio tra il pensiero mitico e quello linguistico: viene cioè evidenziata una comune natura o radice. Scrive il filosofo tedesco:” la metafora è una trasposizione, entrambi i contenuti tra i quali essa si muove, stanno fissi come significati in sé determinati e indipendenti, e tra di essi, come termini di partenza e di arrivo, ha luogo il movimento della rappresentazione, movimento che porta a passare dall’uno all’altro e a sostituire, nell’espressione, l’uno all’altro”. A partire da questi presupposti viene sviluppata una riflessione su un possibile sentire mitico. Ecco un ulteriore passaggio: “anche la più semplice figura mitica sorge mediante una trasformazione che sottrae una determinata impressione alla sfera del consueto, del quotidiano, del profano, per sospingerla in quella del «sacro», del significativo”. I miei pianoforti, sulla scorta di tali agganci, possono esser definiti per l’appunto meccanismi e dispositivi metaforici. Ed è vigente, per l’appunto, un’intenzione di trasposizione. Per me è stato affascinante pormi in una prospettiva di approccio differente, agevolando quasi una deviazione, in vista di una restituzione il più possibile originale e libera.
Spostiamo quindi l’attenzione sui Pianoforti-piantagioni, dove invece hai voluto esplicitare un legame con la disciplina della botanica, arrivando a costruire traiettorie pianistiche servendoti non delle corde, ma di alcune parti metalliche.
Nei pianoforti- piantagioni ho sviluppato degli accadimenti pianistici situandomi nelle zone recondite dello strumento, trasformato a tutti gli effetti in un inedito germogliatore o, ancor meglio, in un’atipica piantagione pronta a restituire segnali proliferanti e liberi di vita. Lo spunto è stato quello di operare con una mano “prensile” e con un atteggiamento vicino a quello della mano intenta ad esplicitare operazioni nel campo della botanica o dell’agricoltura. Nel volume di poesie questo è il mese dei radiosi incarnati del suolo (Oèdipus) avevo già iniziato, da un punto di vista poetico, a far leva sul concetto di rivoltamento delle zolle per una possibile aerazione del suolo. Anche in questo caso torna l’idea di un terreno, non statico, ma al contrario fatto oggetto di proficui interventi esterni: il pianoforte quindi si trasforma in terreno e lo è, d’altra parte, la nostra lineare o -per lo più composita-esistenza.
Parlaci ora delle Scritture trasformiste.
Anche nelle Scritture trasformiste viene agevolata un’emozione di sorpresa e di lieve sobbalzo. Mi piace parlare di una “poetica del trasalimento”: In effetti, come in un’operazione chirurgica vera e propria, mi sono ritrovata a prelevare gruppi di tasti dal pianoforte per utilizzarli da un punto di vista musicale, per poi dare forma a pannelli di grande formato. Su tali pannelli campeggiano per l’appunto delle scritture, delle vistose parole-annunci, determinate da una disposizione dei tasti stessi sul supporto in questione. In primavera conto di presentare questo allestimento. Spero vivamente che il pubblico possa ritrovare in tutti questi approcci artistici ed esperienziali una vitalità e una spinta emozionale.
E arriviamo infine ai pianoforti coltellati, che possono essere posti accanto a quelli “volumetrici e sculturali”.
Nei pianoforti coltellati si dischiude e si fa strada una drammatizzazione dello strumento. L’utensile, in questo caso il coltello, è stato visto come una protesi e un degno ausilio per poter elaborare delle musiche da una parte ma, dall’altra, degli impianti scenici peculiari. In questo caso lo strumento è stato dunque assimilato a un vero e proprio fabbricato e inoltre a un sistema produttivo, sulla base di riferimenti all’urbanistica. Tutte queste formulazioni non sono altro che il risultato di un nuovo approccio, per un possibile, e soprattutto rigenerato, atto conoscitivo. Per quanto concerne la creazione di pianoforti volumetrici-sculturali infine ho impiegato oggetti auto-costruiti, in ferro, da inserire in vario modo nella tastiera, in modo tale da enfatizzare alcune risonanze e suoni armonici, insistendo sul concetto di prolungamento del suono. Il tema dell’antropizzazione è stato in questo caso saliente. La tastiera, vista come luogo antropizzato in virtù della presenza di oggetti paragonabili a residui di vestimenti umani, ha voluto rimandare visivamente e concettualmente alla presenza dell’uomo e alle sue leggi di occupazione del suolo. Tutti i lavori fin qui descritti potranno essere considerati, in sostanza, della “Trame estetiche”, delle vicissitudini dotate di ingranaggi interni da cogliere e scoprire.
È il momento di una riflessione conclusiva.
La mia riflessione conclusiva vuole essere un invito a muoversi agevolmente tra reminiscenza e lealtà costruttiva, incuneandosi nel tempo con una mobilità del pensiero che vada di pari passo con una sensibile visione o esperienza percettiva. Il mio è un progetto di apertura verso una concezione e una prassi strumentale peculiare ma, soprattutto, è una scelta di collocarsi sulla soglia del possibile, nel segno di uno scavalcamento.