Inizialmente avrebbero voluto ucciderlo davanti alla Chiesa dove andava a pregare in spregio al suo comportamento da “santocchio” che, unito alle sue capacità investigative, infastidiva non poco i mafiosi.
Bastano queste parole dette da Giuseppe Di Caro, capo provinciale di Cosa Nostra, per avere una idea chiara di che personalità fosse Rosario Livatino.
Nella giornata del 9 maggio, giorno in cui si fa memoria dell’anniversario della visita pastorale di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi in Sicilia, Rosario Livatino è proclamato beato.
Il giudice ragazzino (così definito per la sua giovane età) durante la sua breve esistenza terrena è stato un modello esemplare di lotta alla criminalità. La sua vita è stata sempre contesa tra il Vangelo e la Costituzione, a tal punto da essere dichiarato un martire della giustizia.
Ha lavorato sempre con costanza, facendo leva sui sani e proficui principi morali, con tanto di carattere umanitario.
Ogni mattina prima di andare in tribunale ad Agrigento si concedeva qualche momento di preghiera nella Chiesa di San Giuseppe. Rispettava gli imputati, anche quelli macchiati di gravi delitti e spesso andava nell’obitorio a pregare per le anime dei mafiosi uccisi. Era una persona semplice che non amava, sia per carattere che per scelta, il palcoscenico. Di certo non viveva recluso e ne tantomeno nascondeva le sue idee. Amava il suo lavoro e, nella consapevolezza stessa che la sua attività investigativa lo avrebbe portato di sicuro alla morte, non arretrò di un passo e, deciso più che mai ad andare avanti, iniziò una serie di azioni giudiziarie contro gli atti illeciti della criminalità. Iniziò quindi ad occuparsi dei sequestri dei beni mafiosi, facendo applicare per primo la legge Rognoni-La Torre attraverso la quale riuscì a confiscare molti possedimenti dei boss del suo paese. Ha collaborato in stretta unione con i giudici Falcone e Borsellino; ha scoperto l’organigramma della mafia agrigentina ed ha individuato i legami più stretti tra questa e le grandi imprese, tra la politica e la criminalità organizzata. Inoltre ha saputo combattere contro chi ostinatamente ha deturpato l’ambiente decenni prima che si parlasse di ecomafie.
Per mezzo di ciò Livatino era diventato un vero e proprio pericolo per gli interessi loschi dei mafiosi e, come ormai è risaputo, chi si interpone nel raggiungimento degli interessi malavitosi è destinato ad essere punito con la morte. E così è stato per il giovane giudice: il 21 settembre del 1990, come sua consuetudine, mentre si accingeva ad andare a lavoro con la sua utilitaria, una fiat punto di colore amaranto, sul viadotto Gasena della statale 640 gli si affiancano in sella ad una moto alcuni killer ed iniziano a sparargli. Ai primi colpi il giudice tenta di fuggire nella scarpata, ma uno dei killer della Stidda ( organizzazione mafiosa) lo raggiunge e lo finisce. Su di lui furono scaricati ben sette colpi di arma da fuoco.
Rosario Livatino, figlio unico era molto legato ai genitori. Non accettò mai la scorta fermamente convinto dell’idea di non vedere della gente pagare per l’incolumità della sua stessa vita. Di una cosa sola si sentiva protetto, delle tre lettere “S.T.D.” che spesso scriveva nelle sue agendine e che volevano significare Sub Tutela Dei, un atto di affidamento al Signore.