Sono passati più di quattro anni dall’uscita di Creature selvagge, vincitore nel 2017 della Targa Tenco per la migliore opera prima. Nel frattempo il collettivo torinese Lastanzadigreta, una vera jug band che si è distinta per la sua capacità di suonare qualsiasi oggetto recuperato e modificato insieme a strumenti strani dimenticati in qualche soffitta, ha lavorato, suonato in giro per l’Italia, scritto nuove canzoni e – come tutti – si è fermato per questo strano 2020.
Il 2021 riparte da Macchine inutili, secondo album in uscita oggi, 5 febbraio, in cd, vinile e digitale per La Contorsionista / Sciopero Records, distribuzione Self, con il sostegno del MiBACT e di SIAE nell’ambito del programma “Per chi Crea”.
Anticipato dal lyric video della title track Macchine inutili riprende lo spirito del suo predecessore, nel segno della “musica bambina”, una personale filosofia creativa diffusa nel 2017 con tanto di Manifesto (www.lastanzadigreta.com/manifesto-della-musica-bambina).
Una musica adatta a tutti che supera le distinzioni alto/basso, d’autore/non d’autore, giovani/vecchi, adulti/bambini. Un approccio giocoso e leggero alla scrittura di canzoni, che permette di stupirsi e stupire, di mettersi in gioco e gioire, di essere bambini «permanenti», indipendentemente dall’età. Una musica democratica in cui tutti possono suonare tutto. In cui lo strumento musicale è uno strumento per fare qualcosa, non un fine in sé.
Rispetto a Creature selvagge, il nuovo lavoro vira in una direzione più matura e “pop”, tra arrangiamenti di archi e fiati (con la collaborazione della Filarmonica del Teatro Regio di Torino), sintetizzatori e la consueta parata di strumenti “strani”: giocattoli sonori, oggetti rumorosi e vecchi strumenti raccolti per pochi euro ai mercatini delle pulci, curati e assemblati in nuove configurazioni con l’obiettivo di ricercare suoni sempre nuovi e insoliti. Una Wunderkammer di bizzarrie acustiche che include spazzole, tubi in pvc, macchine da scrivere, racchette da tennis, bidoni industriali e batterie di pentole, accanto a strumenti più canonici come chitarra e pianoforte e altri meno comuni come marimba, banjolino, Farfisa, cigarbox, theremin, vecchi armonium, vibraphonette e seghe musicali.
Le canzoni spaziano dal pop sinfonico a tema ambientalista di “Pesce comune” alle filastrocche elettronico-acustiche (“Attenzione attenzione”, il singolo che ha anticipato il disco in estate), da sonorità debitrici di Sufjan Stevens (“Fiori”) a brani intrisi di un minimalismo alla Penguin Café Orchestra (“Grammatica della fantasia”, dedicata a Gianni Rodari), a esperimenti con organici e sonorità da musica contemporanea (“Macchine inutili”) e inni ironici da jug band (“Spid”). Un disco di canzoni che sembrano appartenere al cantautorato di una volta, ricercato, elegante e allo stesso tempo pop. Un disco che parla di amore, di lavoro, di Resistenza, dell’arte di inventare storie per ripensare il mondo.
Con la sua personalissima cifra stilistica Lastanzadigreta confeziona con cura artigianale 13 brani che rimangono in testa al primo ascolto, 13 piccole storie che con ironia e delicatezza strappano un sorriso dolceamaro, alternando personaggi di fantasia, macchine animate, super eroi della Resistenza, bambine sognanti a bambine ormai cresciute, interinali “che sfidano il vuoto occupazionale”, operatori di call center, fiori che crescono sull’asfalto di un mondo malato da riordinare e salvare. Protagonisti dei nostri giorni in cui il realismo capitalista regna imperante, dove il futuro è difficile da immaginare, dove le maglie della burocrazia imbrigliano tutto e tutti e dove il gesto d’amore più grande è pagare i contributi al proprio partner.
Macchine inutili vuole essere nel titolo un omaggio al lavoro di Bruno Munari, che alla metà del secolo scorso, nel pieno dell’industrializzazione del nostro paese, sviluppò una serie di disegni e sculture dedicati a macchine «inutili perché non fabbricano, non eliminano manodopera, non fanno economizzare tempo e denaro, non producono niente di commerciabile»; non sono altro che «oggetti mobili colorati da guardare come si guarda un complesso mobile di nubi dopo essere stati sette ore nell’interno di un’officina di macchine utili».
Queste macchine che in apparenza non servono a nulla, nella prospettiva di Lastanzadigreta, sono molto simili alle canzoni. Se Creature selvagge muoveva dall’idea della creatività come dote – appunto – «selvaggia», da domare e concretizzare nelle «piccole» canzoni attraverso il lavoro collettivo, il fare musica insieme, l’insegnamento e la presa in cura, Macchine inutili parte invece dalla riflessione sulla funzione delle canzoni nel mondo contemporaneo. Dove l’«inutilità», naturalmente, è tale solo se misurata sui valori dominanti del profitto e dell’individualismo: essa rappresenta invece l’ultima forma di resistenza, l’essenza stessa della possibilità di fare una musica (e un’arte) che abbia ancora una valenza civile, sociale e politica.
Un messaggio che è oggi particolarmente attuale, con il mondo della musica e della cultura fermo da mesi proprio perché «inutile», superfluo; e che costringe a interrogarsi su che cosa vogliamo veramente salvare del mondo che abbiamo costruito, che cosa vogliamo sopravviva per il futuro – prossimo o remoto che sia.
La copertina del disco è illustrata dall’artista Cinzia Ghigliano, che accompagna il gruppo fin dall’inizio.
Lastanzadigreta – Macchine inutili
TRACK-BY-TRACK
Abbiamo concluso le registrazioni di Attenzione attenzione poco prima del primo lockdown. Nelle intenzioni iniziali era un pezzo che voleva parlare, in forma di malinconica filastrocca appoggiata sopra un sequencer, della società contemporanea, del mondo del lavoro nell’epoca del “realismo capitalista”, di quella difficoltà a immaginare il futuro che la nostra epoca sperimenta quotidianamente, il vecchio mondo che non muore e quello nuovo che tarda ad arrivare (che è una parafrasi molto libera di una cosa che scriveva Gramsci, ripresa anche da Mark Fisher). Poi, nel pieno del lockdown, ci siamo resi conto che molte delle cose che la canzone raccontava funzionavano perfettamente anche in quel “mondo di mezzo” in cui ci trovavamo a vivere, ciascuno bloccato nella sua stanzetta. Il titolo è ispirato a una bizzarra filastrocca che Bruno Munari inserì in apertura della sua raccolta Le macchine di Munari (Corraini Editore).
Perché è complesso il cuore
è buio, e pieno di creature
c’è il vecchio mondo che non muore
e quello nuovo che tarda ad arrivare.
02. Pesce comune
Un brano pop sinfonico, con il tema principale affidato agli archi, al synth e al glockenspiel. Il testo racconta il punto di vista di un “pesce comune” su un mondo post-apocalittico che assomiglia molto al mondo di oggi, con le «creature della terrà che sarà» che nuotano «tra i fossili dell’era digitale», sullo sfondo delle proteste della metà ricca del mondo… Sarebbe stata perfetta per il Festival di Sanremo.
Se la verità si è frantumata è plastica mangiata
il vero non si perde, arriva fino al fondo.
03. Canzone d’amore e di contributi
Nel 2020 si può ancora cantare d’amore «ma senza far sottintesi», come raccomandavano i Cantacronache nel 1960; si può cantare d’amore ai tempi del lavoro precario, dell’impoverimento delle nuove generazioni, in cui mettere su casa è «un lusso per gente borghese» e l’estremo atto d’amore verso il proprio partner è pagargli (o pagarle) i contributi. La musica si costruisce intorno al beat di una preistorica drum machine Farfisa del 1969, comprata per 3 euro al mercatino. Scandiscono il ritmo un banjolino, un piano Rhodes, un cigar box distorto e una batteria di pentole e posate, con un effetto lo-fi che forse voleva omaggiare il primo Beck o gli Eels, ma che poi è diventato un’altra cosa. Ospite alla voce Gigi Giancursi (già Perturbazione), che ha improvvisato in studio la “tirata” finale.
Una voce si alza sicura dal corso motivazionale: le vostre sono tutte cazzate non c’è nulla da motivare. Comincia così, sopra le righe, una storia di amore e di pane, più forte degli interinali e del vuoto occupazionale.
04. Fiori
Fiori deve molto, come suggestione, al pop elettro-acustico di Sufjan Stevens; si costruisce nell’incrocio di arpeggi tra una chitarra dobro e un machete (piccolo strumento portoghese, simile all’ukulele), fino a un’apertura sinfonica con protagonisti gli ottoni e gli archi della Filarmonica del Teatro Regio di Torino. Il testo riflette sull’importanza di mettere in ordine, nelle proprie cose come nel mondo, raccogliendo ciò che non serve più per riciclarlo e rimetterlo in circolo in forme nuove.
Fiori di campo sopra l’asfalto
li raccoglierò me ne curerò
con i miei guanti e il camioncino
li saluterò li solleverò.
In un disco intitolato alle macchine inutili non poteva mancare un omaggio a Gianni Rodari e alla sua Grammatica della fantasia, fantastica «introduzione all’arte di inventare storie» pubblicata nel 1973. Per l’arrangiamento, che ha qualche suggestione della Penguin Café Orchestra, «servono poche cose»: una marimba, una kalimba, una rana di legno, un piano giocattolo e un paio di claviette, di quelle che si usano a scuola.
Mi servono poche cose: del pongo, un nonno, un gatto
un mezzo indovinello, una rana, un uccello.
06. Creature selvagge (parte 2)
Creature selvagge era il brano che apriva il nostro primo album. Era liberamente ispirato al film del 2012 Re della terra selvaggia (in originale Beasts of the Southern Wild, da cui le creature), meravigliosa storia di una bambina in un mondo semi-sommerso dopo una catastrofe. La vita è andata avanti, la bambina è cresciuta ed è diventata donna e madre. Il brano, delicato e dolce, è cantato insieme a Cecilia, che ha anche prestato la sua arpa, accoppiata alla marimba nell’arrangiamento tutto acustico.
E sono ancora io, uccisa dal mare e salvata da dio
con questi calli unico segno che mi fanno ricordare ancora chi è
il viso giovane vecchio che guardo nello specchio.
07. Cavallini
Cavallini è la parola che da anni usiamo, tra di noi, per rimuovere la parola “problema” (per capirci: «Abbiamo un problema» diventa «C’è un cavallino da risolvere»). Alla fine è diventata una canzone bizzarra, con un ritornello senza parole quasi da ballare, e tante storie e personaggi che si intrecciano nel testo.
Coda di cavallo serve il pranzo nel polo industriale dove nasce la tua auto. Ha gli occhiali riparati con il nastro, che senza tredicesima vanno bene anche così.
Greta e la nuvola è la canzone che ci accompagna da più tempo, è nata insieme a noi molti anni fa e, nonostante non sia mai uscita dalle scalette dei concerti, non l’avevamo mai incisa. Anche perché, per regola interna, non viene mai provata ed è sempre improvvisata ogni volta con un arrangiamento nuovo, suonando quello che è disponibile in quel momento: delle chiavi, un palloncino, una scaffalatura, dei giocattoli… Coerentemente, l’abbiamo improvvisata anche qui, suonando quello che era disponibile nella casa che ha ospitato le registrazioni. Parla di Greta, che chissà forse un giorno tornerà.
E chissà, chissà, chissà se Greta questo già lo sa
chissà, chissà, chissà se Greta un giorno tornerà.
09. Millantatore
L’arte di raccontare storie è molto simile a quella di inventare bugie, e ogni grande narratore è prima di tutto un bugiardo matricolato. Millantatore è un malinconico valzerino affidato a un harmonium un po’ sfiatato e al glockenspiel ed è dedicata, appunto, ai grandi millantatori, a quelle persone (tutti ne conosciamo, o vorremmo conoscerne) che hanno un sistema garantito per vincere al lotto, che hanno domato bestie selvagge, girato il mondo, e che ancora ci fanno credere alle grandi storie d’amore.
Millantatore, la gente ha bisogno di te
millantatore, per credere ancora alle grandi storie d’amore.
Dario Scaglione detto Tarzan nacque a Santo Stefano Belbo nel 1926, e morì fucilato nel 1945, dopo la battaglia di Valdivilla. Proprio a Valdivilla si conclude Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, e alla memoria di Dario Scaglione lo scrittore dedicò uno dei suoi racconti, L’erba brilla al sole. Una canzone sulla Resistenza e su quello che ne rimane nell’Italia di oggi, un po’ diversa dal solito.
Dove hanno nascosto tutto il nostro amore?
Poteva bastare per stare un poco meglio, fino alla fine del mondo.
Una romanza dedicata alle macchine a all’amore che esse fanno, tra loro, quando l’uomo non le guarda. In linea con il genere, l’arrangiamento è per organico cameristico “novecentesco”, con marimba, viola, violoncello, oboe e clarinetto basso, e una serie dodecafonica in sottofondo.
La macchina copula, stride e si accoppia
l’amore che scoppia fra pettine e lana.
La seconda parte della suite di Macchine inutili cambia invece atmosfera e si sposta su suoni più industrial, ancora con la marimba , qui doppiata dai sintetizzatori, con bidoni e lastre metalliche che si muovono in secondo piano, fino all’assolo del mandolino elettrico. Una dedica, naturalmente, a Bruno Munari.
Le macchine inutili stanno a guardare con tutto il lavoro che c’è
Io resto qui con te.
13. SPID
Gigi Giancursi ci ha regalato questa canzone-mantra dedicata ai meandri della burocrazia contemporanea (pure essa macchina inutile come poche ve ne sono). Un ironico inno allo SPID (Sistema pubblico di identità digitale) suonato dal vivo in studio da una jug band, da cantare tutti in coro.