Nella seconda metà dell’Ottocento l’Italia fu l’ultima delle Potenze europee ad inserirsi nella contesa coloniale. Esploratori, missionari e commercianti italiani si avventuravano in territori sconosciuti dell’Africa per aprire la via a possibili stabilimenti commerciali, protettorati e colonie. I governi italiani, superati i molteplici problemi dovuti alla recente unificazione del Paese e stabilizzata la posizione dell’Italia nel concerto europeo, cominciarono ad indirizzare il loro sguardo verso l’oltremare.
Artefice della politica coloniale fu Pasquale Stanislao Mancini, chiamato da Agostino Depretis nel 1881 a far parte del suo governo come Ministro degli Affari Esteri. Nobile campano, uomo di scienze del diritto, abituato a muoversi tra le sicure e salde normative dettate dalla giurisprudenza, Mancini doveva ora dar prova di essere in grado anche di navigare nelle torbide acque della diplomazia internazionale tra furbizie, inganni e parole oggi proferite e domani negate.
Le mire del governo italiano furono in un primo tempo orientate verso il vicino Mar Mediterraneo. Ma il colpo di mano messo a segno dalla Francia con l’occupazione di Tunisi nel 1881, il mancato intervento in Egitto a fianco della Gran Bretagna nel 1882 e la rinuncia a sbarcare a Tripoli nel 1884, avevano precluso all’Italia le coste dell’Africa settentrionale.
A questo punto Mancini indirizzò le sue mire verso le sponde africane del Mar Rosso convinto di trovare lì “le chiavi del Mediterraneo”. Una scelta presa in parte anche grazie alle singole azioni di alcuni nostri esploratori nel Corno d’Africa, tra cui quelle di Giuseppe Sapeto, Giuseppe Maria Giulietti, Gustavo Bianchi, Antonio Cecchi, Ferdinando Fernè e Umberto Romagnoli.
Sull’onda emotiva dell’eccidio della spedizione guidata dall’esploratore Giuseppe Maria Giulietti, avvenuta sulle coste del Mar Rosso, Mancini nel 1882 fu il fautore dell’acquisto della baia di Assab dalla Compagnia Rubattino, trasformandola nella prima Colonia italiana. Quindi, intimorito dagli appetiti coloniali delle altre potenze, Francia in primo luogo, e confortato dalle buone relazioni con la Gran Bretagna, che si mostrava favorevole ad azioni italiane nel Mar Rosso, il Ministro cominciò a intravedere per l’Italia orizzonti più estesi e si adoperò per tracciare un ambizioso programma coloniale, che prevedeva di portare il Tricolore su un esteso territorio dell’Africa Orientale, comprendente Eritrea, Sudan, Somalia ed Etiopia, che però non ebbe la possibilità di realizzarsi, se non in minima parte, sia per interferenze parlamentari che per incomprensioni internazionali.
Fu così che l’Italia il 5 febbraio 1885 occupava Massaua, il porto più importante del Mar Rosso, e a seguire pose sotto il Tricolore tutto il tratto di costa eritrea compreso tra Massaua ed Assab per una lunghezza di circa 400 chilometri. Contemporaneamente l’esploratore Antonio Cecchi, in missione per conto del governo alle foci del Giuba nell’Oceano Indiano, il 28 maggio 1885 siglava un Trattato di Amicizia e Commercio con Zanzibar, che sanciva di fatto l’avvio della presenza italiana sulla costa somala. Questi due successi italiani, ma purtroppo gli unici, delinearono a Nord con Massaua e a Sud con il Giuba i futuri confini dell’influenza dell’Italia nel Corno d’Africa.
L’ambizioso programma coloniale di Mancini si fermò qui, a seguito della sua uscita dalla scena politica. A lui va il merito di aver costituito le basi dell’Impero Coloniale Italiano che nell’arco dei successivi cinquant’anni si svilupperà nel Corno d’Africa.
Titolo: Le chiavi del Mediterraneo. Gli esordi del Colonialismo Italiano
Autore: Andrea Cotticelli
Editore: Palombi Editori
Argomento: Storia
Formato: Brossura, Illustrato
Pagine: 208
Pubblicazione: Novembre 2020
Luogo: Roma
ISBN: 978886009052
Prezzo: € 15,00
Nella seconda metà dell’Ottocento l’Italia fu l’ultima delle Potenze europee ad inserirsi nella contesa coloniale. Esploratori, missionari e commercianti italiani si avventuravano in territori sconosciuti dell’Africa per aprire la via a possibili stabilimenti commerciali, protettorati e colonie. I governi italiani, superati i molteplici problemi dovuti alla recente unificazione del Paese e stabilizzata la posizione dell’Italia nel concerto europeo, cominciarono ad indirizzare il loro sguardo verso l’oltremare.
Artefice della politica coloniale fu il Ministro degli Esteri Pasquale Stanislao Mancini, il quale, dopo le occasioni mancate in Tunisia, Egitto e Libia sulle sponde del Mediterraneo, indirizzò le sue mire verso le sponde africane del Mar Rosso convinto di trovare lì “le chiavi del Mediterraneo”.
L’ambizioso programma di Mancini prevedeva di portare il Tricolore su un esteso territorio dell’Africa Orientale, comprendente Eritrea, Sudan, Somalia ed Etiopia, che però non ebbe la possibilità di realizzarsi, se non in minima parte, sia per interferenze parlamentari che per incomprensioni internazionali.
Le navi italiane sbarcarono nel 1885 sulle coste eritree del Mar Rosso dove si creò la prima colonia che si espandeva per 400 chilometri da Assab a Massaua.
Il lungo tratto di costa occupata costituirà la base dell’Impero Coloniale Italiano che nell’arco dei successivi cinquant’anni si svilupperà nel Corno d’Africa.
Andrea Cotticelli, nato a Roma il 29 luglio 1982, è giornalista professionista con esperienza politico-parlamentare e istituzionale e scrittore di saggi storici.
Ha conseguito la Laurea Specialistica in Editoria e Giornalismo, con Tesi in Storia delle Relazioni Internazionali, presso l’Università LUMSA di Roma e il Master di Secondo Livello Parlamento e Politiche Pubbliche, con Tesi in Storia d’Italia, presso l’Università LUISS di Roma.
Ha collaborato per il settimanale PANORAMA, l’Agenzia di Stampa ANSA, il TG3 e il Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Ha lavorato come addetto stampa per il gruppo parlamentare dell’MPA – Movimento per le Autonomie presso la Camera dei Deputati e per INVITALIA – Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa, dove ha svolto anche l’attività di redattore del portale di comunicazione scientifica RESEARCHITALY del MIUR – Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.
Attualmente è il web writer della Fondazione Giulio e Giovanna Sacchetti Onlus.
Appassionato di Storia Moderna e Contemporanea, con particolare riguardo al periodo che va dal Risorgimento alla Prima Guerra Mondiale, è l’autore dei libri: La Propaganda Italiana nella Grande Guerra, edito da Pagine s.r.l. nella collana I libri del Borghese, Roma, 2011; e Beatrice Orsini Sacchetti la regina nera nella Roma papalina del XIX secolo, edito da De Luca Editori D’Arte, Roma, 2018.
LE CHIAVI DEL MEDITERRANEO di ANDREA COTTICELLI
INTRODUZIONE
Nella seconda metà dell’Ottocento una frenetica espansione coloniale pose la maggior parte delle terre del globo sotto l’ombra delle bandiere europee. Nelle feconde e spesso inesplorate regioni dell’Africa lo scontro tra le potenze, grandi e piccole, vecchie e nuove, si rivelò con tutto il suo impeto colonizzatore.
In Italia l’interesse coloniale dei governi postunitari della Destra non era però in parallelo con quello delle altre potenze europee, nonostante l’ardita opera dei nostri esploratori, missionari e commercianti che, spesso appoggiati da un ristretto gruppo di circoli coloniali o da società geografiche, si avventuravano verso tutte le direzioni della Terra trovando sul loro cammino zone libere facilmente adattabili a confortevoli insediamenti e pronti per una proficua colonizzazione.
Nel primo ventennio postunitario l’Italia avrebbe potuto sfruttare le azioni di questi coraggiosi esploratori, scegliersi i migliori territori vacanti, di cui esisteva grande abbondanza, stipulare trattati di protettorato con capi indigeni e spartirsi poi con le grandi potenze europee milioni di chilometri quadrati di territorio africano meritando effettivamente quel titolo di “Grande Potenza” che il conte di Cavour aveva guadagnato per il Regno di Sardegna durante il Risorgimento.
In quel periodo però l’attenzione della politica italiana era interamente rivolta alla stabilizzazione del nuovo Stato unitario, che presentava enormi problemi economici e sociali di non facile soluzione e che richiedevano la massima urgenza.
La politica estera quindi si limitava unicamente a difendere l’Unità raggiunta con tanti sacrifici, preferendo rimanere estranei ai grandi eventi europei, rendendosi conto che per il momento l’Italia non possedeva sufficienti mezzi per essere una “Grande Potenza”. Questa fu la direttiva costante dei governi della Destra dal 1861 al 1876. Non c’era spazio per mettere all’ordine del giorno progetti di colonizzazione, anche se apparivano opportuni e vantaggiosi.
Con la svolta parlamentare del marzo 1876 che portò al potere la Sinistra mutò anche l’approccio del governo sul colonialismo. Il piemontese Agostino Depretis, protagonista indiscusso di questa fase politica, già leader della Sinistra all’opposizione, fu capo del governo per oltre dieci anni, con una parentesi fra il 1878 e il 1881, quando la guida dell’esecutivo fu affidata a Benedetto Cairoli, esponente dell’ala progressista della maggioranza.
All’inizio i governi della Sinistra mostrarono in politica estera di voler seguire quella stessa “linea di equilibrio” e di isolamento che era stata dei governi della Destra. Questa posizione, tuttavia, non teneva conto dei forti sentimenti nazionalisti che emergevano allora in Europa e il risulato fu che durante il Congresso di Berlino del 1878, aperto sulla questione Orientale, l’Italia, perseguendo la sua politica delle “mani nette”, fu l’unica potenza tra quelle che vi parteciparono a non ottenere alcun beneficio dalla spartizione dell’immenso territorio del grande malato europeo, l’Impero Ottomano.
Un radicale cambiamento ci fu il 29 maggio 1881, quando Agostino Depretis chiamò a far parte del suo governo nel ruolo di Ministro degli Affari Esteri Pasquale Stanislao Mancini. Egli si trovò all’improvviso proiettato in un clima particolarmente difficile, dove lo scacchiere europeo era agitato da molteplici problemi, soprattutto nazionalistici, e ogni Stato si preoccupava solo di accrescere la propria influenza in un gioco delle parti che vedeva il continuo pericolo di aggressioni esterne e quindi la necessità di bilanciare costantemente le forze in campo a scopo difensivo.
Uomo di scienze del diritto, abituato a muoversi tra le sicure e salde normative dettate dalla giurisprudenza, Mancini doveva ora dare dimostrazione di essere in grado anche di navigare nelle torbide acque della diplomazia internazionale tra furbizie, inganni e parole oggi proferite e domani negate. Il suo compito si presentava ancora più arduo perché proprio in quel periodo la scena europea era dominata da personaggi come il cancelliere tedesco Bismarck, con la sua prepotente personalità, il primo ministro francese Ferry, fervido imperialista, e gli inglesi Gladstone e Granville, forti delle molteplici esperienze derivanti dalle complesse questioni legate alle colonie britanniche sparse nell’intero globo.
Il primo scoglio che dovette affrontare Mancini fu la necessità di togliere l’Italia dall’isolamento. La soluzione fu la realizzazione del Trattato della Triplice Alleanza con gli Imperi Centrali.
L’Italia intratteneva buoni rapporti commerciali con la Francia ma, dopo che questa nel 1881 aveva occupato Tunisi, avvertiva costantemente il pericolo francese nel Mediterraneo. Questa situazione d’insicurezza la spinse a cercare alleanze che potessero garantirle una maggiore tranquillità. L’attenzione si rivolse verso la Germania e l’Austria-Ungheria. Il progetto però incontrava pareri contrapposti. Gli irredentisti italiani non vedevano di buon occhio l’alleanza con Vienna, perché ciò avrebbe certamente significato la rinuncia definitiva alle terre che essi reclamavano per l’Italia, cioè Trento e Trieste. Di diverso avviso erano invece quelli che, come Francesco Crispi e Sidney Sonnino, vedevano proprio nell’alleanza con Berlino e Vienna il naturale sbocco della politica italiana e l’acquisizione di una certa autorevolezza nel concerto europeo.
Dopo lunghe trattative il ministro Mancini riuscì a portare a termine l’operazione e il 20 maggio 1882 il Trattato della Triplice Alleanza fu sottoscritto a Vienna. Archiviato il problema dell’isolamento dell’Italia nel contesto europeo, Mancini spostò ora tutta la sua attenzione nel campo coloniale.
Le mire del governo italiano erano in un primo tempo orientate verso il vicino Mar Mediterraneo. Ma il colpo di mano messo a segno dalla Francia con l’occupazione di Tunisi nel 1881, il mancato intervento in Egitto a fianco della Gran Bretagna nel 1882 e la rinuncia a sbarcare a Tripoli nel 1884, avevano precluso all’Italia le coste dell’Africa settentrionale.
A questo punto l’attenzione di Mancini si spostò verso i lidi africani del Mar Rosso, nei quali era convinto che avrebbe trovato quelle che lui definiva «le chiavi del Mediterraneo».
Sull’onda emotiva dell’eccidio della spedizione guidata dall’esploratore Giuseppe Maria Giulietti, avvenuta nei pressi di Beilul sulle coste dancale, Mancini presentò alle Camere il 26 giugno 1882 un disegno di legge dal titolo “Provvedimenti per la Colonia Italiana di Assab”, che gettò le basi per la futura colonizzazione italiana nel Mar Rosso.
Il primo passo fu l’acquisto della baia di Assab dalla Compagnia Rubattino, che ne deteneva il possesso per motivi commerciali fin dal 1869, trasformandola nella prima Colonia italiana. Quindi, intimorito dagli appetiti coloniali delle altre potenze, Francia in primo luogo, e confortato dalle buone relazioni con la Gran Bretagna, che si mostrava favorevole ad azioni italiane nel Mar Rosso, il ministro Mancini cominciò a intravedere per l’Italia orizzonti più estesi e si adoperò per tracciare un ambizioso programma coloniale nel Mar Rosso e in Africa Orientale.
L’occupazione di Massaua, avvenuta il 5 febbraio 1885, portava il dominio italiano su tutta la costa dancala del Mar Rosso da Massaua ad Assab per una lunghezza di circa 400 chilometri.
Nei progetti di Mancini, Massaua doveva considerarsi la testa di ponte per i suoi fini espansionistici, che prevedevano l’occupazione di Suakin, Kassala e forse anche della stessa Khartum nel Sudan in cooperazione con le forze britanniche ed anche l’insediamento a Zeila e nell’Harar in sostituzione delle guarnigioni egiziane in procinto di evacuare la zona. Infine accarezzava l’idea di piantare il Tricolore alle foci del Giuba sulla costa somala dell’Oceano Indiano. Tutti questi insediamenti, dalle coste del Mar Rosso alle coste dell’Oceano Indiano, sarebbero stati il presupposto per una operazione di accerchiamento finalizzata al salto finale verso l’obiettivo più ambito: l’Abissinia.
Di tutti questi progetti soltanto uno andò parzialmente a buon fine: l’esploratore Antonio Cecchi, in missione per conto del governo nell’Oceano Indiano, il 28 maggio 1885 siglava un Trattato di Amicizia e Commercio tra Italia e Zanzibar, che sanciva di fatto l’avvio della presenza italiana sulla costa somala.
Fu così che nei primi mesi del 1885 l’Italia dominava su un tratto di costa africana del Mar Rosso da Massaua ad Assab e godeva di un Trattato di Amicizia e Commercio con Zanzibar, preludio all’espansione italiana su tutta la costa somala dell’Oceano Indiano fino alle foci del Giuba. Questi due successi italiani, ma purtroppo gli unici, delinearono a Nord con Massaua e a Sud con il Giuba i futuri confini dell’influenza dell’Italia nel Corno d’Africa.
Purtroppo l’ambizioso programma coloniale di Mancini si fermò qui, perché gli innumerevoli attacchi che gli venivano rivolti sia dall’opinione pubblica che dai parlamentari, anche appartenenti al suo stesso partito, che in merito alla politica coloniale lo accusavano di parlare tanto ma di dire poco e agire ancor meno, ne determinarono l’uscita di scena il 18 giugno 1885.
Al ministro Mancini va comunque il merito di aver tolto l’Italia dall’isolamento e di averne aumentato il prestigio in campo coloniale, rivelandosi lungimirante per aver individuato in Africa quelle aree che nei successivi cinquant’anni avrebbero costituito l’Impero Coloniale Italiano.
INTERVISTA AD ANDREA COTTICELLI
Autore del libro: “Le chiavi del Mediterraneo”
Gli albori delle imprese coloniali dell’Italia sono al centro del nuovo libro di Andrea Cotticelli “Le chiavi del Mediterraneo. Gli esordi del Colonialismo Italiano” edito da Palombi Editori, uscito in questi giorni in tutte le librerie e sulle piattaforme online. Un tema poco noto, ma che ha segnato una tappa di grande rilievo nella storia nazionale.
Perché scrivere oggi un libro sugli esordi del colonialismo italiano?
Il mio interesse a trattarlo nasce in quanto ad oggi ai più è sconosciuto e sono stati ben pochi gli storici e gli scrittori che vi si sono dedicati in modo specifico. Infatti gli albori delle imprese coloniali sono stati spesso solamente inseriti nelle pagine di volumi che trattano più ampiamente della storia d’Italia oppure trovano spazio solo in pochi capitoli nei rari e datati testi focalizzati sul colonialismo italiano.
Ho ritenuto opportuno scrivere degli esordi delle imprese coloniali dell’Italia nella convinzione che essi abbiano segnato una tappa di grande rilievo nella storia nazionale e che valga oggi la pena di essere riscoperta.
Per scrivere “Le chiavi del Mediterraneo” che tipo di lavoro di ricerca ha svolto?
Per il mio lavoro di ricerca e scrittura, oltre ad alcune specifiche pubblicazioni di illustri storici che hanno circoscritto i loro studi in una più approfondita analisi delle origini dell’avventura coloniale italiana, sono state fonti obbligate, e forse uniche, alle quali ho potuto attingere per conoscere come nacque e si sviluppò in Italia la politica coloniale nei primi decenni postunitari, sono i discorsi e gli atti parlamentari pubblicati dalla Camera dei Deputati e dal Senato del Regno d’Italia, e i documenti diplomatici italiani risalenti agli anni Ottanta del XIX secolo.
Questi si sono rivelati di grande utilità per inquadrare nel miglior modo possibile come gradualmente si è andato sempre più sviluppando l’interesse dei governi italiani, in particolare per il Governo Depretis-Mancini, per quelle zone del Mar Rosso e dell’Africa Orientale, ritenute essere “le chiavi del Mediterraneo”, che furono le basi di quello che divenne poi l’Impero Coloniale Italiano.
Ha dato ampio spazio nel suo libro non solo ai documenti ma anche ai giornali dell’epoca. Perché questa scelta?
A corredo della citata documentazione è parso interessante, ed a volte curioso, consultare articoli riportati su alcune pubblicazioni settimanali della seconda metà dell’Ottocento, dove giornalisti e commentatori politici mettono in risalto il giudizio dell’opinione pubblica in balia di notizie, spesso contrastanti, sugli avvenimenti in corso, mentre corrispondenti esteri inviano le prime impressioni sulle nuove terre italiane.
Infine, nel suo libro sono presenti molte illustrazioni d’epoca rare e inedite. Queste risultano essere una chiave di lettura in più sul colonialismo italiano?
Ho ritenuto gradevole arricchire il testo con alcune illustrazioni riprese da pubblicazioni settimanali degli anni 1878-1885, come “L’Illustrazione Italiana”, “Rivista Illustrata Settimanale” e “L’Illustrazione Popolare”, nelle quali disegnatori dell’epoca hanno ritratto luoghi, costumi e momenti di vita relativi agli albori delle imprese coloniali. Da quelle illustrazioni possiamo oggi avere un’idea di come apparivano quei luoghi agli occhi dei primi italiani, esploratori, missionari, commercianti e soldati, che sbarcavano sulle coste africane del Mar Rosso. Vi si possono inoltre ammirare le sagome delle navi che parteciparono alla spedizione italiana nel Mar Rosso e cogliere momenti di vita dei reparti militari destinati ad Assab e Massaua, i primi possedimenti italiani nel Corno d’Africa, nei loro accampamenti, nelle strutture fortificate e nelle residenze civili.