di Sergio Alberto Codella, avvocato giuslavorista e Segretario Generale AIDR
Il 7 dicembre 2021 il Governo e le Parti sociali hanno sottoscritto il Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile. Non è stata certamente una sorpresa: già da qualche tempo si vociferava della volontà di firmare un accordo “sindacale” sullo smart working relativamente al settore privato.
Sul tema sono intervenuti numerosi esperti che, per la stragrande maggioranza, hanno formulato un giudizio positivo o più che positivo sul Protocollo. Al riguardo mi considero, però, una voce fuori dal coro.
Innanzitutto affronterei una questione di “base” relativa agli attuali equilibri sindacali. In molti commenti si è sottolineato il concetto che il Protocollo confermerebbe una nuova fase di concertazione tra il Governo, le rappresentanze dei datori di lavoro e, appunto, i sindacati, in particolare, CGIL, CSL e UIL. Peccato, però, che questa valutazione sembri essere sconfessata da quanto accaduto in occasione dello sciopero generale del 16 dicembre 2021, proclamato da CGIL e UIL, ma non dalla CISL.
A prescindere dalle ragioni che hanno determinato tale divaricazione, la questione è assai significativa in quanto, dopo molti anni in cui la Triplice è sempre stata compatta nell’indire manifestazioni e astensioni dal lavoro, oggi ci troviamo di fronte ad una oggettiva spaccatura sindacale tra CGIL e UIL, da un lato, e CISL, dall’altro.
Ciò per dire che, alla luce della importante scelta di indire uno sciopero generale non unitario, appare fuori luogo sbandierare uno stato positivo dei rapporti tra le parti sociali per la sottoscrizione “congiunta” di un Protocollo che (per i motivi di cui si dirà) ha una rilevanza secondaria.
Passando ad analizzare il Protocollo, esaminerei subito una questione “formale” che peraltro sembra riverberarsi nella sostanza del testo.
Definire il documento come “protocollo”, appare una scelta superata già sotto il profilo testuale. Un’intesa che avrebbe l’ambizione di traghettare il mercato del lavoro verso il futuro sembra infatti in contraddizione con l’anacronistica denominazione di “protocollo”, di indubbio sapore ottocentesco. Nell’ottica di riformare il diritto e il mercato del lavoro, sarebbe stato più opportuno avere più coraggio e intraprendenza e definirlo “accordo programmatico” o, addirittura, “linee strategiche di sviluppo”.
Nel merito poi il documento, a mio avviso, potrebbe essere considerato in gran parte superfluo e, per il resto, non del tutto condivisibile.
Superfluo, in quanto molti dei concetti e dei principi rappresentati non sono altro che una ripetizione, o meglio una parafrasi, di quanto già previsto nella Legge n. 81/2017 (che disciplina, appunto, il lavoro agile), una legge che è e resta ottima.
Si prenda, ad esempio, l’accordo individuale, che costituisce il punto cardine della disciplina prevista dalla Legge n. 81/2017. Il Protocollo non fa che ripetere quanto sostanzialmente previsto dalla normativa in tema di requisiti necessari per l’accordo, solo con un livello di specificazione maggiore, i cui standard comunque erano stati, a mio parere, già raggiunti con la contrattazione a livello individuale.
Anche per quanto riguarda la salute e la sicurezza sul lavoro, la definizione di luoghi e orari della prestazione, la tutela in caso di infortunio, il principio di parità di trattamento non si riesce a vedere nulla di veramente innovativo, se non una maggior declinazione di quanto già previsto dalla legge.
Peraltro il Protocollo non ha colto l’opportunità di “risolvere” alcuni nodi che la prassi applicativa ha posto, come, ad esempio, quello sull’assegnazione dei buoni pasto agli smart worker (su cui il documento nulla riferisce) o, ancora, in tema di disconnessione (su cui il Protocollo continua ad essere piuttosto generico).
Il Protocollo pone, invece, l’attenzione sugli “incentivi” destinati (forse) alle aziende che, a determinate condizioni, favoriscono l’utilizzo del lavoro agile. Considerato che lo smart working è un’opportunità sia per i lavoratori, sia per le società, non mi sembra giustificata tale “incentivazione” che, invece, sarebbe stata più appropriata per l’introduzione o lo sviluppo, ad esempio, della digitalizzazione aziendale.
Quanto, invece, al giudizio di “non condivisibilità” di alcune parti del Protocollo, mi riferisco soprattutto a due aspetti.
Il primo, di minore importanza, è relativo agli strumenti di lavoro. Il documento chiarisce infatti che, normalmente, tali strumenti sono forniti dal datore di lavoro, fatto salvo diverso accordo tra le parti. Tale opzione non mi sembra opportuna in quanto, almeno gli strumenti hardware devono essere assegnati sempre dal datore di lavoro al lavoratore, per più ordini di motivi. Innanzitutto, il dipendente non deve mettere a disposizione propri strumenti per poter espletare la propria prestazione (si pensi paradossalmente al caso in cui venisse chiesto ad un impiegato di portarsi le proprie penne in ufficio…), inoltre è nello stesso interesse datoriale conferire al lavoratore strumenti aziendali e ciò per assicurare che gli stessi rispettino standard informatici di sicurezza adeguati all’attività richiesta.
Se su un computer di proprietà di uno smart worker vi fosse una intrusione “informatica”, con perdita o furto di dati sensibili aziendali determinata dai bassi livelli di sicurezza di detto strumento informatico, non potrebbe essere di certo imputata alcuna responsabilità al lavoratore, con grave danno per l’azienda.
Il secondo e più importante aspetto riguarda il ruolo della contrattazione collettiva nel mondo dello smart working. La Legge n. 81/2017 non aveva attribuito alcun “compito” alla contrattazione collettiva. Tale scelta legislativa mi sembra essere più che coerente con l’istituto del lavoro agile considerato che, come ripetutamente affermato nella stessa relazione illustrativa alla legge, lo smart working offre vantaggi sia per il datore, sia per il dipendente. Una volta, quindi, che la normativa ha posto i limiti e definito le garanzie per i lavoratori, non si comprende quale possa essere la necessità di intese sindacali sul punto che, invece, sono più che caldeggiate dal Protocollo.
Leggendo le premesse al documento, sembra che l’opportunità di tali intese “collettive” sia rinvenibile nella necessità di garantire il “corretto utilizzo (delle nuove) … tecnologie” e di offrire “idonee garanzie” sulla “sicurezza dei dati aziendali e della tutela dei dati personali dei lavoratori”.
Non si comprende come un’intesa collettiva possa offrire maggiori rassicurazioni sul raggiungimento di tali obiettivi, considerando che la Legge n. 81/2017 già definisce un ventaglio di tutele adeguato e che, in una sede come quella di un’intesa collettiva, appare francamente difficile affrontare temi quali l’utilizzo di nuovi strumenti informatici oppure la gestione dei dati personali del datore o del dipendente.
Ad ogni modo, ci si augura che tale Protocollo possa perlomeno incentivare l’utilizzo dello smart working a livello di cultura di impresa e, cioè, sia utile a rendere palese che ormai anche le parti sociali hanno preso piena consapevolezza del fatto che il lavoro “agile” sia una forma di attività “fisiologicamente” e utilmente inserita all’interno del processo di sviluppo dell’organizzazione dell’impresa in senso sempre più moderno.